Questione digitale

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La tecnologia promette più connessione, più comunità, talvolta più amore. Le possibilità di connessione e di interazione sono oggi infinite, eppure nel concreto continua a mancare qualcosa: il bisogno di spazi di ascolto e di comunità reali rimane inatteso; la solitudine si trasforma, ma persiste. Anzi, quando gli spazi digitali si dimostrano essere spazi ostili, strumentalizzati e senza cura, è proprio la qualità delle relazioni e del dialogo a soffrirne, erosa da un mare di intrusioni e manipolazioni con fini commerciali. Alcuni strumenti digitali sembrano attenuare la noia e l’ansia, ma in verità, così come un farmaco che cura i sintomi e non la malattia, mascherano i problemi, perché ci rendono incapaci di affrontare le difficoltà e di uscire dal comfort. Altri promettono di rendere le operazioni quotidiane più facili da un lato, ma dall’altro risucchiano il nostro tempo, la nostra presenza e attenzione, sabotando di fatto la nostra autonomia personale e collettiva.

Pari passo l’informazione, ora più presente che mai, perde le sue qualità a favore dell’abbondanza, dell’immediatezza, della viralità. Le qualità più controverse, visibili e rumorose delle informazioni inquinano il dibattito, rendendo meno probabile una rappresentazione lenta e ponderata dei fatti, e in ultima istanza contribuiscono alla polarizzazione e alla radicalizzazione delle parti sociali, all’impossibilità di un dibattito sano e non pilotato. Abbiamo strumenti digitali che facilitano enormemente l’apprendimento, ma è difficile farne uso se la nostra attenzione è divisa, frammentata e satura, in una contesa algoritmica delle menti.

La tecnologia si propone come surrogato delle nostre relazioni più intime tanto quanto della socialità politica, ampia e di vasto respiro. Suggerisce di sostituire il reale e il corporeo: viene incontro alle nostre vulnerabilità e alla nostra perenne mancanza di tempo, fornendo rappresentazioni digitali della socialità che richiedono meno sforzo e meno cura. Apparentemente la tecnologia amplia quello che possiamo fare e quanto possiamo fare, ma, sorpassata una certa soglia, nell’eccesso di tecnologia siamo noi che diventiamo a servizio di una macchina: non una macchina qualsiasi, ma una macchina del profitto e del controllo, progettata alla perfezione, che promette di risponde ai nostri bisogni ma in realtà ci trasforma in una risorsa da cui estrarre valore.

Di conseguenza:

Rifiutiamo il senso di colpa che gli spazi digitali ostili costringono a vivere

La perdita di controllo, l’ansia, la depressione e le cattive abitudini che acquisiamo online o con i dispositivi non sono “colpa nostra”: è poco utile parlare di persone vulnerabili (o di “generazioni ansiose”) se prima non ammettiamo che esiste un problema a monte, che l’industria digitale ha sviluppato delle vere e proprie tattiche di “design della dipendenza”, che ci sono veri e propri atteggiamenti predatori nei confronti delle persone, e in particolare di quelle più giovani. Questione digitale significa ribaltare il paradigma della patologizzazione: una persona che subisce gli effetti di tecnologie studiate per colpire le sue vulnerabilità non è affetta da patologia; è invece patologica quella particolare cultura economica che ritiene normale trattare le persone e la socialità umana come una merce, senza riguardo per i diritti e le capacità umane.

Vogliamo dialogo e non “connessioni”: la promessa dei social media di connetterci è una narrativa fasulla al servizio dell’economia dell’attenzione

I social media commerciali (cioè quelli controllati dalle grandi aziende tecnologiche, Meta in particolare) propagandano una narrativa fatta di “connessioni”, quando in realtà si basano su un modello di profitto che vuole solo estrarre valore da queste connessioni, trasformando la socialità in una merce. Il risultato sono spazi digitali che non favoriscono il dialogo, anzi spesso creano relazioni superficiali, frammentano l’attenzione, promuovono valori legati alla visibilità, alla celebrità e al successo individuale. Invece di combattere la solitudine creano un senso di comunità fragile e aleatorio, invadendo sempre più spazi della nostra vita, sostituendo il reale con una rappresentazione del reale. La conversazione e la capacità di relazionarsi si trasformano, diventano ombre di sé stesse: si moltiplicano le connessioni, le comunicazioni rapide, aumenta la presenza digitale ma diminuisce quella reale, che è continuativa e impegnativa. In questo modo si erode la capacità di stare: di non scappare continuamente, di non cambiare continuamente canale, di non avere necessariamente mille stimoli in un unico momento; si sminuisce la necessità della cura e della costanza in una relazione reale e complessa, una relazione che, al contrario di un’applicazione o di un chatbot, non si può chiudere e riprendere premendo un pulsante.

Vogliamo comprendere gli effetti delle specifiche tecnologie per decidere come usarle.

La quantità di tempo che trascorriamo su spazi digitali, online e offline, è in aumento, ovunque: ma a questo aumento, spesso incoraggiato dalle istituzioni nel nome della transizione digitale, non corrisponde uno sguardo altrettanto critico sulla tecnologia di cui facciamo uso. Non si tratta di dare un giudizio morale sulla tecnologia, ma di imparare a conoscere le conseguenze dell’uso che se ne fa e a valutarle. In particolare, è importante comprendere la natura degli spazi digitali che viviamo quotidianamente, dalle app ai social media; comprendere l’effetto che hanno sulla società; comprendere il divario e le tensioni che, in alcuni casi, possono creare tra gruppi, fazioni, etnie, generi e generazioni. Non sempre la tecnologia è buona per “connettere”, soprattutto quando è al di fuori del nostro controllo, o di qualsiasi controllo democratico.

L’automazione della persuasione è un pericolo per la democrazia.

Le tecnologie digitali e algoritmiche, così come l’intelligenza artificiale, vengono impiegate per creare profili psicologici dettagliati, al fine di prevedere e indirizzare le nostre scelte, manipolando la realtà stessa che appare sui nostri schermi e scegliendo per noi con chi connetterci, con cosa interagire, come socializzare, come votare. La pervasività di queste dinamiche crea un’illusione di connettività e di infinita libertà di scelta, ma in realtà ci isola e ci rende collettivamente manipolabili e dipendenti, al servizio di una grande macchina della persuasione. Se da un lato le tecnologie e le tecniche della persuasione sono sempre esistite (la televisione, ma ancora prima la stampa, e così via), è ora possibile impiegare queste tecnologie in maniera pervasiva e massiccia, ma con un controllo granulare, mirato ad ogni singola persona; ma soprattutto, è possibile automatizzare questa tecnologia, creando attraverso gli schermi una vera e propria situazione di persuasione continua, in cui la nostra attenzione è perennemente contesa, saturata e manipolata da questo tipo di tecnologie, senza che ci siano confini percepibili tra dove inizia e dove finisce la persuasione algoritmica. Questo tipo di automazione tecnologica, oltre alla salute mentale, ha un effetto marcato sulla nostra consapevolezza, sulla nostra capacità di indirizzare la nostra attenzione liberamente; di conseguenza, incide pesantemente sulla possibilità di percepire la realtà in maniera autonoma, con conseguenze profonde per la collettività e la democrazia.

Le persone e vengono prima della tecnologia: l’ascolto reciproco è una capacità da sviluppare, non da risolvere meccanicamente.

Affrontare la questione digitale significa tornare all’ascolto reciproco, capire assieme come, quando e se vogliamo adottare soluzioni tecnologiche, e quali usare, invece di subire imposizioni tecnocratiche o dettate dalle circostanze e dalla competizione. La tecnologia digitale, dispiegata in fretta e furia nel nome del progresso e senza una reale consapevolezza, ha dei rischi concreti. Nei casi peggiori aumenta la polarizzazione sociale e dell’informazione; manipola e monopolizza la consapevolezza a danno dell’autonomia individuale; promuove l’individualismo e la visibilità al di sopra ogni altro valore; incoraggia l’uso compulsivo dei media digitali e altri comportamenti problematici. Non intendiamo dire che la tecnologia sia la sola e unica causa di questi fenomeni: ma che, molto concretamente, è in grado di amplificarli, in particolar modo quando qualsiasi innovazione viene accolta passivamente, distribuita ovunque e lasciata in gestione a compagnie private che non hanno come primo imperativo il bene comune.

Gli spazi sociali sono beni comuni e vanno difesi, non abbandonati al controllo di enti commerciali il cui scopo non può essere il nostro benessere.

Vogliamo parlare di come riprendere il controllo, sia delle nostre abitudini, che dei nostri spazi. Gli spazi digitali, e in particolare i social e gli spazi della socialità, sono veri e propri beni comuni e parte integrante della vita politica. Lasciare che diventino prevalentemente un veicolo per la mercificazione della vita sociale e della politica significa svuotare questi spazi di senso civico, favorendo dinamiche altre, opache, automatizzate e algoritmiche, totalmente al di fuori di qualsiasi controllo democratico.

Non è un problema giovanile, e non è un problema di “tecnologia”: il problema è avere permesso la creazione e la diffusione di tecnologie predatorie e lesive della dignità umana.

Fare delle nuove generazioni una vittima è poco utile, quando in realtà, è il mondo tecnologico adulto ad essere problematico. È come se davanti ad uno stupro attribuissimo la colpa (per il comportamento, l’abbigliamento, …) alla vittima, o ci concentrassimo sull’educare le donne a come evitare “situazioni simili” in futuro, invece di fermare il responsabile, e farci delle domande sul sistema che non l’ha educato come necessario: una dinamica che tristemente conosciamo bene. Allo stesso modo: se gli spazi e i dispositivi digitali sono tossici, lo sono per chiunque; se, nel loro design, assomigliano ad un casinò, se creano confusione, malessere e dipendenza, lo fanno spesso in maniera intenzionale e con scopo di lucro. Ci sono delle responsabilità pressanti dietro a quello che sta succedendo alla salute mentale collettiva, che vanno individuate, e un confine che va tracciato, tra la tecnologia che vogliamo e quella che non vogliamo. Se la mancanza di ascolto e di cura porta le persone a rifugiarsi nella tecnologia (e a cercare lì surrogati di ascolto e cura, magari nella forma di intelligenza artificiale), il problema non è giovanile, e non è nemmeno tecnologico, ma profondamente sociale. Ammettere che questo problema esiste significa accettare questa responsabilità e decidersi a cambiare il mondo che viviamo, digitale e reale: perché pensare di potere educare “i giovani” a vivere in un mondo sbagliato significa abdicare la propria responsabilità davanti a situazioni che sono lesive dei diritti e della dignità umana, davanti ad un vuoto normativo che permette all’industria del digitale di trattare le persone come merci. Comprendere questo ci aiuterebbe anche ad avere una visione d’insieme: non ci sono un mondo digitale e un mondo reale separati, ma due realtà in costante scambio, che si influenzano a vicenda. In quest’ottica, inquadrare il problema di salute mentale come un “problema digitale e tecnologico” significa perdere di vista la trasversalità della questione, rischiando di proporre soluzioni che valgono solo a metà.

L’uso predatorio della tecnologia digitale da parte delle grandi aziende non è un fenomeno isolato, ma è l’espressione della mentalità estrattivista, nel contesto di una più ampia crisi della cura.

Questa attenzione sulla questione digitale serve ad affrontare un problema concreto di salute mentale e di tutela dei valori democratici, ma al tempo stesso è un modo di spostarsi verso la società della cura, di tornare a fare uso dell’ascolto e della conversazione, di riappropriarsi della tecnologia e dei beni comuni. Questa iniziativa non vuole essere una “campagna per (o contro) il digitale”, isolata e atomizzata nel suo scopo, ma parte di un quadro più ampio, di una risposta alla crisi della cura che stiamo vivendo; e per inquadrare il comportamento dell’industria digitale nel contesto più ampio dell’estrattivismo, pari alle altre industrie estrattiviste. Questa prospettiva è utile perché, se da un lato con il digitale e le tecnologie della persuasione assistiamo a fenomeni nuovi, dall’altro ci sono dinamiche già studiate e conosciute che la (lunga) storia dell’estrattivismo ci indica.

  • Società della cura. Di cosa si tratta, e qual è la connessione con la questione digitale? Vedi approfondimento qui.
  • Estrattivismo minerario ed estrattivismo digitale. Cosa è esattamente l’estrattivismo, quali sono le sue caratteristiche, e cosa c’entra con l’industria digitale? Approfondimento qui (sezione “L’estrattivismo, il digitale, ed il patto sociale”).