Mettere in chiaro i collegamenti
Questo è un approfondimento per inquadrare la questione digitale come un tassello della più ampia crisi della cura. Seguiranno altri, più puntuali, sui temi sollevati.
Estrattivismo: normalmente se ne parla in riferimento all’estrazione di risorse naturali, sia esauribili, come o i minerali (comuni o rari), ma in alcuni casi anche per quelle rinnovabili, come l’acqua, la legna e i prodotti agricoli. L’estrattivismo, detta molto in breve, è quel fenomeno per cui una grande quantità di risorse viene estratta da un luogo al fine di esportarla, senza riguardo per la sostenibilità ed il possibile esaurimento della risorsa, spesso a discapito di quel luogo e di chi lo abita, per via dei danni ecosistemici (es. perdita di accesso ad acqua pulita), ma anche perché si crea un differenziale di potere, con profonde conseguenze politiche, tra chi (a distanza) trae profitto dalla risorsa e chi vive il territorio e ci lavora, ma non ha diritti sulla risorsa stessa.
Perché allora parlare di estrattivismo in relazione al digitale? Un aspetto importante è sicuramente quello dei materiali necessari alla tecnologia digitale, le terre rare e i minerali, spesso legati a zone di conflitto o condizioni di sfruttamento virtualmente indistinguibili dalla schiavitù1.
Ma non è l’unico effetto. L’estrattivismo fa sì che anche risorse che in passato erano considerate rinnovabili si esauriscano: a fronte di operazioni particolarmente aggressive, i corpi d’acqua possono prosciugarsi, le risorse ittiche estinguersi, le foreste possono perdere la capacità di rigenerarsi, il suolo può essere reso sterile quando l’estrazione oltrepassa la naturale capacità di rigenerazione della natura.
L’estrattivismo non è solo una serie di processi meccanici, ma un modo di organizzare la società e l’economia2. In questa modalità è del tutto possibile che le pratiche estrattiviste, per estensione,vengano applicate non solo alle risorse naturali, ma a qualsiasi risorsa, inclusa la capacità cognitiva umana. Potrebbe non piacerci pensare all’attenzione come ad una risorsa: ma di fatto, il modello di business dell’industria digitale si basa proprio su questo, cioè sull’estrazione, su scala globale, dell’attenzione, manipolata e rivenduta sul mercato sotto forma di pubblicità, di dati, di profili psicologici.
La modalità di estrazione è complessa e articolata: avviene tramite i dispositivi digitali onnipresenti, un design del software che sfrutta le vulnerabilità psicologiche per catturare l’attenzione (notifiche, infinite scroll, gamification, design delle interfacce), la manipolazione degli spazi digitali e dei contenuti che vediamo tramite l’automazione algoritmica, la creazione artificiale di un senso di insoddisfazione e inadeguatezza che intrappola le persone a rimanere collegate. Questo, per citare solo alcune delle modalità prevalenti nell’economia dell’attenzione: per approfondire, vedi “L’attenzione rubata” di J. Hari, “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” di J. Lanier, “The Sirens’ Call” di C. Hayes).
È in questo senso che parliamo di estrattivismo digitale: una risorsa, l’attenzione, viene prelevata e manipolata tramite mezzi tecnologici, senza alcun riguardo per la funzione che essa svolge nell’ecosistema umano. L’attenzione è rinnovabile, perché ad ogni singolo istante possiamo decidere come impiegarla, su cosa concentrarci. Al tempo stesso è una risorsa in pericolo, perché collettivamente è satura, sfruttata oltre il limite entro cui può rigenerarsi, nel senso che viene assorbita con una costanza e penetrazione crescente. L’estrazione indiscriminata dell’attenzione, per via dei meccanismi che impiega, crea una serie di effetti, tra cui: l’attenzione è dirottata sul consumo, sul culto della visibilità e della spettacolarità; rinforza l’imperativo che impone alle persone di essere perennemente connesse e aggiornate; aumenta la polarizzazione e la diffusione di materiali controversi, … l’elenco è lungo e non lo approfondiremo qui: quello che conta è che gli strumenti e gli spazi per difendere la consapevolezza e la capacità umana di fare attenzione in maniera autonoma non vengono prioritizzati, ma al contrario destabilizzati.
Questi effetti sono paragonabili a quelli dell’estrattivismo che conosciamo meglio: così come una miniera può inquinare falde acquifere e a catena distruggere un ecosistema, così l’estrazione dell’attenzione ha un effetto che non è individuale, ma sistemico. Quindi: così come lo sfruttamento del suolo crea terreni sterili dove nulla può crescere senza l’immissione di fertilizzanti artificiali, così l’abuso dell’attenzione, a partire dalla prima infanzia, rischia di creare deserti dell’attenzione. Così come una singola pianta non può sopravvivere se rimane isolata in un terreno arido e privo di una copertura verde che mantenga l’umidità del suolo necessaria, allo stesso modo anche gli spazi e le istituzioni più resilienti, i luoghi dove si pratica l’apprendimento ed il pensiero critico, anche questi soffrono se circondati da un deserto dove i ragionamenti sono solo possibili attraverso l’immissione di intelligenza artificiale, dove la capacità di fare attenzione (già di per sé rarefatta) è possibile solo grazie alla gamification, dove è possibile imparare solo se dotati di (costosi) visori di realtà virtuale, dove la memoria “non serve” perché la risposta si trova su Google o su ChatGPT, dove in generale qualsiasi processo cognitivo diventa sempre più dipendente da tecnologie proprietarie, non trasparenti, e controllate da aziende for-profit estere.
Salute mentale come bene comune
In questo contesto, l’attenzione e la salute mentale escono dalla dimensione individuale. Se, da un lato, la scelta di come passiamo il nostro tempo, la scelta di rivolgere l’attenzione ad una cosa piuttosto che ad un’altra è personale ed insindacabile, al tempo stesso le nostre scelte cognitive fanno parte di una collettività, collettività che decide cosa è importante, cosa vale la pena assecondare, su cosa agire . Di fatto, l’attenzione collettiva determina cosa è visibile e cosa no, determina le priorità politiche, forma la nostra cultura vivente ed esistente. Un’attenzione collettiva permanentemente invasa e manipolata, sempre di più soggetta ad interventi tecnologici, non può che andare a destabilizzare le istituzioni democratiche; e allo stesso tempo, gli spazi sociali, se manipolati con l’unico fine di creare profitto, non possono che incidere negativamente sulla salute mentale collettiva, creando spazi digitali ansiogeni, iper-competitivi, spesso violenti.
Per questo è utile pensare alla capacità di fare attenzione, liberamente, senza un livello tossico di manipolazione3, come ad una capacità fondamentale per la dignità umana, e come una parte essenziale della salute mentale. Ed è utile pensare a questa capacità, intesa collettivamente, come ad un bene comune. Cosa è un bene comune? È un bene, cioè qualcosa che ha un valore sociale: un uso, un impiego che soddisfa certi bisogni, desideri, aspirazioni; ed è comune nel senso che questo valore d’uso è condiviso, è comune ad una pluralità4. Più nello specifico, però, il bene comune serve ad una pluralità non silenziosa, ma attiva, che si fa comunità, che crea valore oltre al bene stesso, perché crea valore nella relazionalità che si prende cura del bene e che si assicura che possa durare ed essere consegnato alle prossime generazioni. Non solo il bene, ma anche la preziosa rete di gestione, la saggezza e la conoscenza stessa che si è creata attorno al bene, non sigillata in un brevetto privato ma in una forma liberamente accessibile, che non sia gerarchica, con fini di controllo e sfruttamento.
Se l’attenzione è una risorsa minacciata, sottratta alle persone dall’industria digitale, e se questo prelievo (tra le altre cose) compromette la salute mentale collettiva, possiamo pensare alla salute mentale come un bene comune. Sia in risposta all’estrattivismo digitale, sia per tanti altri buoni motivi, sarebbe utile vedere la salute mentale collettiva come qualcosa da proteggere tramite la creazione di comunità resilienti. Da un lato, che queste comunità siano in grado di porre dei limiti sensati alla tecnologia e al prelievo di attenzione; e al tempo stesso sappiano guardarsi intorno per cercare di colmare i vuoti su cui operano tante delle promesse del digitale: il vuoto della solitudine, della mancanza di cura, di ascolto, di connessione, di inclusione. Perché se la tentazione è di ascrivere queste problematiche interamente alla tecnologia digitale, spesso quello che accade è che la tecnologia viene sviluppata con il pretesto di colmare dei vuoti esistenti, fornendo soluzioni-feticcio, come ad esempio il recente sviluppo dei chatbot come partner romantici. Eliminare la tecnologia però non colma quel vuoto: è quindi necessario che quelle stesse comunità sviluppino alternative alla tecnologia basate sulla cura reciproca, evitando di fare diventare le vulnerabilità psicologiche l’ennesima fonte di guadagno.
La cura dei beni comuni per una visione olistica dei problemi
I problemi del presente vengono spesso definiti a compartimenti stagni: il problema digitale come un problema delle nuove generazioni, la crisi ambientale come un problema tecnologico, la salute mentale come qualcosa da medicalizzare. Queste divisioni non sono più sostenibili: per questo è importante tracciare una mappa che ci aiuti ad uscire da questa situazione, a rompere i dualismi, e quello tra digitale e reale e uno di questi. Il dispiegamento della tecnologia digitale, per come sta avvenendo oggi, non è che l’estensione di un pensiero economico estrattivista che si è servito della tecnologia per estrarre risorse ben oltre la capacità di rigenerazione naturale. Il pericolo non sta (solo) in un futuro dal clima invivibile e dagli ecosistemi al collasso: ma esiste oggi, quando è già palese che il pensiero economico della crescita infinita si ritorce, in maniera estremamente personale, contro di noi. Il processo predatorio che trasforma la consapevolezza in merce non risparmia nessuno e, anzi, avviene con particolare ferocia nei confronti delle nuove generazioni e di chi ha meno strumenti per difendersi.
Termini come “estrattivismo”, “beni comuni” e “cura” possono creare confusione. Eppure è importante usarli, non per creare una conoscenza elitaria, ma al contrario, per riconnettersi ad una lunga storia che ha visto l’appropriazione dei beni comuni, dalle terre, all’acqua, alle fonti energetiche da parte di una piccola percentuale della popolazione mondiale. Sapere riconoscere questa ricchezza, sapere che appartiene a chiunque, sapere che è un diritto umano fondamentale, saperla difendere è importante, e per questo l’approccio della cura e dei beni comuni è fondamentale: per superare l’idea che ciò che è necessario alla sopravvivenza e alla riproduzione della società possa appartenere a qualcuno.
Perché, ricordiamo, a subire le conseguenze delle crisi dell’estrattivismo (che sia quella climatica, quella dell’attenzione, le situazioni di guerra, …) sono le persone comuni, e in particolare quelle meno privilegiate. E ricordiamo che a cercare di prevenire e rimediare i danni è sempre la società civile. Nel caso del digitale, sono le comunità educanti e di cura che si trovano a dovere fronteggiare una situazione di attenzione precaria, di dovere adottare misure di sicurezza contro un’industria del digitale dotata di mezzi miliardari.
Per questo, se educare al “digitale” o alla tecnologia è fondamentale, al tempo stesso non basta più: è necessario riappropriarsi della tecnologia. Perché non è possibile educare le nuove generazioni a stare in un mondo dove esse stesse diventano merci, dove vengono messe al mondo per diventare estensioni viventi di un brand, di una marca, dove il sogno di essere Youtuber significa manodopera infantile a basso costo per la macchina del marketing. E allo stesso modo, non è possibile “educarci” noi, perché se l’infrastruttura tecnologica della nostra società è predatoria, se è costruita per estrarre valore dalle persone e accumularlo a favore di pochi, quello farà, come in tutti questi secoli ha fatto nelle miniere, nelle foreste e nei pozzi petroliferi di tutto il mondo, superando guerre e ostacoli politici: non c’è verso di resistere individualmente, di correre più veloce di una macchina che vuole divorare il mondo. Quello che possiamo fare è decidere di riprenderci, collettivamente, le risorse che alimentano la macchina: per farlo in maniera costruttiva, la cura dei beni comuni è un’alternativa possibile.
- “La rete non ci salverà”, Lilia Giugni, 2022, Longanesi, capitolo 3 “I corpi dietro allo schermo” ↩︎
- Chagnon, C. W., Durante, F., Gills, B. K., Hagolani-Albov, S. E., Hokkanen, S., Kangasluoma, S. M. J., … Vuola, M. P. S. (2022). From extractivism to global extractivism: the evolution of an organizing concept. The Journal of Peasant Studies, 49(4), 760–792. https://doi.org/10.1080/03066150.2022.2069015 ↩︎
- Chiaramente, non si può pensare di eliminare la manipolazione dalla comunicazione, o dalla natura umana. Ma finché la manipolazione avviene alla pari, senza tecnologia, possiamo imparare a riconoscerla, farci l’abitudine, adattarci. Quando però la manipolazione digitale, algoritmica e automatizzata, diventa la normalità, e quando questa manipolazione è mirata all’utente tramite la precisione della profilazione psicologica dei dati, è in quel caso che la manipolazione diventa altamente tossica, perché c’è un differenziale di potere troppo grande: come se in un confronto pacifico tra due persone, improvvisamente spuntasse fuori una pistola. Dove sia, esattamente, il limite da tracciare (la manipolazione tecnologica non nasce certo col digitale), è difficile da stabilire: ma questo non significa che allora tanto vale rinunciare a tracciarlo. ↩︎
- “Omnia Sunt Communia”, Massimo De Angelis, 2017, Zed Books ↩︎